L’esperienza del maestro Abdou nel Kaolack (Senegal)

Abdou lavora in una scuola primaria del Kaolack, in Senegal. Nella sua regione c’è sempre una splendida luce: il sole sottolinea l’arancione e i rossi della terra, delle cortecce, dei panni stesi, brilla sulle lamiere e luccica sulle plastiche abbandonate. La luna di notte invece si porta via questo mondo senza acqua corrente, senza luce elettrica diffusa ma con lampadine che tingono l’aria di blu, di rosa e di viola. Qualche asino attraversa la strada nella giusta stagione. C’è festa e silenzio. 

Fa il maestro in una scuola con 130 bambini e 4 maestri. Una strana divisione ha fatto sì che i suoi alunni siano 60, due classi insieme. Di docenti nuovi non ne arrivano e un collega è morto lo scorso anno scolastico perché il “marabout” non si era accorto della malattia e quando è arrivato il dottore era troppo tardi. Abdou sognava da bambino di fare il medico o l’infermiere e preferirebbe che la gente andasse subito dal dottore. 

Abdou arriva dalla zona di Thies, è nato a Tivaouane dalla prima moglie di un padre esperto agronomo che viene mandato nel Kaolack a gestire semi, concimi e materiale per l’agricoltura. È qui che i suoi genitori si conoscono e Abdou ci tiene a dirmi che sua madre è proprio del Kaolack. I “graines de bouche” (arachidi) sono deliziosi da mangiare anche così, come caramelle.

Da 18 anni Abdou è maestro, mestiere che ha scelto per 3 motivi:

  1. Perché si fanno molte scoperte
  2. Perché sei molto amato
  3. Perché ai bambini e alle bambine ha sempre voluto bene e anche se fare il maestro stanca tantissimo, l’amore riposto sui più piccoli è ben speso.

Mi sorride quando mi racconta che fare il maestro ha anche un bel fascino: i bambini e le bambine ti guardano e tu sembri un genio, gli spalanchi il mondo, “è una magia”.

A scuola infatti deve accadere un “éveil”, quello svegliarsi al mondo con la scoperta del vivere insieme. Ma la sfida è alta: il sistema spazza via tanti bambini e bambine. 

Mi parla per molto tempo della lingua francese che insegna in classe. Per lui, non si può “prendere un sistema e metterlo su un altro” e si sente confortato dallo slancio che USAID1 sta rendendo possibile nel Kaolack2. Come si può insegnare a bambini di classe prima una lingua che non è quella della madre e del padre, che non è quella del villaggio e nemmeno quella con cui giocano a ricreazione? Eppure senza quella lingua il colpo di scopa rischia di essere ancora più duro. E come si fa a pensare di mettere le mani in una questione così complessa con delle unità didattiche da 30 minuti? 

Le parole della scrittrice Marie Ndiaye aiutano a far comprendere questa complessità nei possibili vissuti dei bambini. È l’esperienza di Khady Demba3 narrata nel romanzo Trois femmes puissantes: “una ragazza ossuta, diffidente, svelta a graffiare per difendersi e che, rannicchiata sul pavimento piastrellato perché non c’erano abbastanza sedie, sentiva senza poterle separare l’una dall’altra le parole rapide, secche, impazienti, infastidite di una maestra che, per fortuna, non le prestava la minima attenzione […] non aveva mai capito nulla né imparato nulla a scuola. La litania di parole indistinguibili pronunciate con voce priva di tono dalla donna dal volto brutale e annoiato, la lasciò fluttuare su di lei, non avendo idea dell’ordine di cose a cui quelle parole si riferivano, sapendo bene che si trattava di una lingua, il francese, che era in grado di parlare un po’ e di sentire, ma senza riuscire a riconoscerla in questo flusso frettoloso e rabbioso…”

Quando Abdou in classe usa la lingua madre tutto diventa più fluido, anche il teorico apprendimento del francese. Ma quale lingua madre per un paese africano come il Senegal? Il problema sfida maestri e maestre e il Ministero che farà libri nelle doppie lingue, ma Abdou è preoccupato dell’efficienza di un sistema così complesso. Il Ministero infatti sta introducendo a scuola anche le principali lingue madri, tra cui il wolof: “a ricreazione l’80% dei bambini e delle bambine qui nel Kaolack parlano wolof”.

Se compito dell’insegnante, secondo Abdou, è quello di stimolare l’acquisizione globale delle parole, occorre che il maestro sappia far parlare i suoi studenti e quando accade che lo facciano in wolof nella sua classe va tutto più veloce, si apprende con il sorriso.

Come riesce a farne parlare 60? “Col canto”.

Ma gli esami nazionali poi in che lingua si faranno? Rimane il francese come lingua “medium” ed ecco che riemergono tanti problemi e contraddizioni. Una per tutte: i docenti per primi spesso parlano male il francese. Per essere un buon maestro occorre studiare, documentarsi e le stesse risorse didattiche e gli articoli sono in francese: non padroneggiare la lingua rende subito mediocre un insegnante che deve sempre prepararsi, per tutta la vita. Deve continuamente interrogarsi sul sapere che sta trasmettendo e come farlo bene.

Per provare a essere un buon maestro occorre saper prendere dei rischi: ogni classe che comincia come la porto a leggere? “Facile lasciarli indietro, ma io amo i fragili e i deboli. Ho detto all’Ispettore che se ha classi fragili può darle a me, io amo il lavoro con loro”. Purtroppo, alcuni colleghi portano avanti solo i bravi.

E il ricordo più bello e importante che hai?

“Era il primo anno di servizio e mi mandarono a insegnare ma non c’era la classe, non c’era la scuola. Ho preso il mio ordine di servizio e il mio bagaglio. Era il 2006. Andai dal capovillaggio per spiegargli che la scuola andava proprio costruita, bambini e bambine non potevano fare 5 chilometri per andare nella scuola più vicina. Ma soldi non c’erano e mi risposero di costruire un riparo. Era la prima volta che sentivo parlare di un “abri”: alcuni ripari con i gambi del mais e nemmeno la tettoia. E per far lavorare i bambini una coperta. Nessuna lavagna, nessun tavolo. 4 metri quadri di rifugio.

Arrivarono 70 bambini e bambine da 3 villaggi, parlavano wolof, sérère e pulaar.

Era la mia prima scuola e non c’era la scuola.

Mi dissero: “devi cavartela”.

Cominciai a recuperare delle assi di legno e dei mattoni per fare dei tavoli. Arrivò una piccola lavagna. Era importante lasciare scritte le cose, che si potessero sedimentare piano. Ma quella lavagna andava sempre cancellata.

Proposi ai bambini di dividersi in due gruppi: un gruppo faceva scuola la mattina e uno al pomeriggio. Lavoravo tutto il giorno per farli apprendere”.

Ma non avevi nessun materiale, come facevi?

“La testa di un bambino non è mai vuota. Abbiamo quello come materiale, abbiamo moltissimo, non va sottostimato. Quando l’insegnante è gentile passa l’amore necessario a farli interessare, a tenere la loro attenzione.

Io disegno bene, mi piace.

Abbiamo bisogno di immagini perché le immagini parlano. Comincio un gatto o un topo. Loro provano a indovinare. Cos’è? Poi disegnano anche loro, con gioia”. 

Abdou non ha pennarelli, non ha acquerelli, non ha tempere, non ha album per disegnare, né bristol. 

Come non pensare al maestro Alberto Manzi e al suo far scuola presso il carcere Aristide Gabelli senza nulla? Anche lui si affidò alle teste e alle vite di quei ragazzi, toccò il grande tema della libertà con quella storia che poi diventò il libro: Grogh, storia di un castoro. Entrambi questi maestri, nelle enormi differenze di tempo e spazio, erano e sono consapevoli dell’importanza, nella vita di ciascun bambino e bambina, dell’educazione, del pensare e dell’apprendere insieme. Allo stesso tempo, non nascondono come la scuola possa diventare fonte di problemi quando diventa altro dal luogo che dovrebbe essere. Far studiare i docenti, farli lavorare insieme continua a essere una strategia fondamentale a tutte le latitudini.


NOTE:

  1.  United States Agency for International Development www.usaid.gov
  2.  www.usaid.gov/fr/senegal/education « L’une des principales innovations du programme réside dans la priorité qu’il accorde à l’enseignement de la lecture et de l’écriture dans l’une des trois langues nationales du Sénégal – c’est-à-dire le wolof, le pulaar ou le serer – que les enfants connaissent et comprennent. Dans certaines régions, des espaces physiques pour la lecture, y compris des bibliothèques et des salles informatiques, sont aménagés dans le cadre des activités. Le programme est mis en œuvre dans sept régions cibles (Diourbel, Kaffrine, Kaolack, Louga, Matam et Fatick)»
  3. Pag. 281 : “une fille osseuse, méfiante, prompte à griffer pour se défendre et qui recroquevillée sur le sol carrelé parce’il n’y avait pas assez de chaises, entendait sans pouvoir les séparer les uns des autres les mots rapides, secs, impatients, contrariés d’une institutrice qui, par chance, ne lui accordait pas la moindre attention […] elle n’avait jamais rien compris ni rien appris à l’école. La litanie de mots indiscernables proférés d’une voix sans timbre par la femme au visage brutal, ennuyé, elle la laisser flotter au dessus d’elle, n’ayant aucune idée de l’ordre de choses auquel ces mots se rattachaient, sachant bien qu’il s’agissait d’une langue, le français, qu’elle était en mesure de parler un peu et d’entendre mais incapable de la reconnaître  dans ce débit pressé, coléreux… »

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